La storia di Martina, prigioniera del Covid – Di Nadia Clementi

Articolo del: 8 Agosto 2022

Una testimonianza dedicata a tutte le persone che oggi, a causa del covid, non sono più con noi e a quelle che ancora lottano per guarire.

La storia di Martina, prigioniera del Covid – Di Nadia Clementi

Come sappiamo, l’impatto della pandemia da Covid-19 ha messo a dura prova tanti percorsi di cura e le vite di tantissime persone. Tra questi non possiamo dimenticare i pazienti affetti da malattie rare, per loro, il 2020 è stato un anno davvero complicato.
Per comprendere la situazione abbiamo parlato con Martina che ha voluto raccontarci la sua storia di malata rara e prigioniera del covid. Una donna coraggiosa che ha saputo ribellarsi alla vita nonostante i momenti bui.
Ma, oggi più di prima, il suo sorriso la rende unica e speciale.
 
Martina è una bella e giovane donna di 38 anni, che vive a Milano, fin dalla nascita è affetta da una malattia genetica definita rara chiamata fibrosi cistica.
Da sempre ha avuto a che fare con lunghe infiammazioni e infezioni polmonari dovute alla malattia che le provocano un eccesso di muco nei polmoni e che spesso si infettano provocando alla peggio anche importanti polmoniti.
Dopo un lungo percorso terapeutico, nel 2016, raggiunti i 31 anni ha iniziato la strada verso il trapianto bi polmonare; dopo essersi sottoposta a tutta una serie di esami mirati per capire se fosse idonea ad un intervento del genere, è stata messa in lista di trapianto.
 
Dopo ben quattro anni di aspettativa è stata chiamata, proprio in coincidenza con la prima ondata di covid in Italia.
Viene operata il 22 maggio del 2020 presso il Policlinico di Milano con la riapertura delle sale operatorie che erano state momentaneamente chiuse per la pandemia.
Dopo l’intervento ha avuto molti problemi a rimettersi in piedi, aveva passato gli ultimi due anni praticamente allettata, in terapia del dolore con morfina fissa.
Inoltre per i quattro anni precedenti il trapianto ha dovuto continuare la cura per la fibrosi cistica, con flebo continue di antibiotico e nutrizione parenterale forzata per 12 ore al giorno.
Oltre a ciò era dipendente dall’ossigeno e dalla NIV, b-pap, diventata poi tristemente famosa per i casi covid, che usava tutto il giorno ad alto flusso per permetterle di respirare da ferma.

Finalmente, dopo sei durissimi mesi, dalla data del trapianto in cui ha dovuto letteralmente reimparare a muoversi, camminare, rifare tutta la muscolatura che era inesistente, riallenarsi quotidianamente per il corpo e per il fiato, ha ricominciato a vivere e a lavorare, non nello stesso posto di prima, ma quella nuova sfida le piaceva!
In pratica, aveva avuto la possibilità di ricominciare ad uscire con gli amici, di abbracciare il suo cane, di organizzare persino un viaggio nell’estate del 2021, insomma, le cose sembravano normalizzarsi, quando ecco che arrivò il covid anche per lei! Fu l’inizio di un’altra dura lotta per la vita…
Fuori dalla malattia Martina è una persona che ama tantissimo viaggiare, e che ha avuto la fortuna di poterlo fare spesso nonostante le difficoltà fisiche.

Ama leggere, scrivere, fare lunghe passeggiate in montagna col suo cane Breath, in onore al fiato che le manca ma che deve trovare per le cose che ama fare per il suo amico.
Breath è sempre stato un po’ il suo sprone per cercare di fare meglio e di più, per allenarsi anche quando non ne aveva voglia, le ha tenuto alto il morale sempre, nella speranza di poterlo riabbracciare e riportare a casa sua.
Purtroppo, in questo momento è stato affidato alle cure di una sua amica perché non ha la possibilità di tenerlo con Lei a causa dei sopraggiunti problemi di salute.

Ultimamente, dopo la scoperta del rigetto avvenuta a marzo di quest’anno, Martina decide di aprire una pagina facebook: www.facebook.com/smartistica. Si chiama 33% è il numero della capacità polmonare che le è rimasta dopo lo tsunami covid e con la quale si deve barcamenare reimparando a vivere a marce ridotte.
È una specie di diario dove scrive tutte le sue difficoltà, le piccole vittorie, e le nuove conquiste della quotidianità.
La fibrosi cistica è una delle malattie genetiche tra le più diffuse in Europa nel Nord America.
Un portatore sano ogni 30 persone non sa di esserlo, così la fibrosi cistica arriva all’improvviso nelle famiglie.
Basta che una coppia sia formata per caso da due portatori sani ed è possibile scontrarsi con la nascita di un figlio malato.
Una cura per tutti i malati ancora non c’è e l’aspettativa media di vita ad oggi supera di poco i 40 anni, guadagnati al prezzo di pesanti cure quotidiane e rinunce.
 
La giovane Martina ha scritto una lettera per raccontare la sua dura battaglia per la vita e che noi di seguito riportiamo: «ogni giorno rinasco, ancora e ancora, guardando il mondo con lo stesso stupore della prima volta, consapevole che ogni respiro su questa Terra siano un dono d’amore infinito.
«Dopo quattro anni di attesa di un trapianto bipolmonare per una patologia chiamata fibrosi cistica, per ironia della sorte sono stata chiamata per l’intervento proprio nel pieno della prima ondata della pandemia da covid. Il 22 maggio 2020, scendevo in sala operatoria e iniziavo quella che tutti chiamavano la mia nuova vita. Assistevo al miracolo. Mi risvegliavo in un mondo a me nuovo, fatto di respiri senza sforzo, senza quella tosse costante che aveva caratterizzato la mia vita fino ad allora.
«Ero rinata in tutti i sensi, e mi sono subito rimboccata le maniche per cercare in tutti i modi di ricostruire una vita dai cocci lasciati da quella prima. Ci ho messo del tempo, ho dovuto guarire dal massacro che ha lasciato dietro di sé questa trasformazione: ogni rinascita lascia dietro frammenti da rimettere insieme, la fenice non rinasce certo dalle sue ceneri senza sforzo e fatica. Ma dopo un periodo di assestamento tutto sembrava andare per il meglio. Era una cosa che sognavo da tantissimo tempo, stesa nel letto dell’ospedale durante le ore vuote dell’attesa di un organo. Cielo, quanto si sogna in quel tempo sospeso…»

«A gennaio 2022 è iniziato il tracollo. Ho fatto un primo covid, nonostante le mille attenzioni da trapiantata immunodepressa che ho sempre preso non sono riuscita ad evitarlo. E sono entrata nella spirale.
«Appena scoperta la positività sono stata affidata alle cure degli infettivologi che tempestivamente mi hanno somministrato la terapia monoclonale adeguata. Nell’arco di pochi giorni i sintomi erano scomparsi e fortunatamente non avevano toccato i polmoni. Mi sentivo miracolata per la seconda volta! Ho ripreso la mia vita, con ancora più attenzioni di prima.
«A marzo però mi sono resa conto che i polmoni rispondevano sempre meno. Iniziò con un lieve fiatone, trasformatosi in pochi giorni in un importante affanno. Chiesi subito una visita di controllo e le prove di funzionalità ci riservarono sorprese inquietanti. Calate è dire poco, erano dimezzate. Ero passata da un 94% di capacità polmonare ad uno scarso 50%.
«Subito la TAC: polmoni da rigetto acuto. Non so che aspetto abbiano i polmoni da rigetto acuto da dentro, ma posso assicurare che da fuori danno una sensazione orribile. Mi sentivo in affanno, con chili di sabbia sul torace, una morsa che non mi faceva espandere le costole per respirare. Eppure, ripetevo tra me e me, fino a 4 giorni fa respiravo normalmente. 4 giorni… non riuscivo a capacitarmi che adesso non più.»
 
«Dobbiamo procedere subito con le cure. La tempestività è fondamentale in questo momento. Arrivai in ospedale quel pomeriggio stesso con la mia valigia, ma venni gentilmente invitata a tornare a casa: il mio tampone, fatto di routine per l’entrata in reparto, era positivo.
«Entrai invece in infettivologia, dove venni sottoposta a lavaggio broncopolmonare per vedere cosa c’era nei miei polmoni che avrebbe potuto dare rigetto, oltre il covid. Non trovarono nulla. Neanche il covid. Il molecolare continuava a segnare positivo, la broncoscopia dava esito negativo.
«Non si capiva più se questo covid ci fosse oppure no. E intanto il tempo passava, io respiravo sempre peggio, e la situazione positivo/negativo non cambiava. Mi mandarono a casa ad aspettare la negativizzazione.
«Non potevo entrare in pneumologia perché ero positiva, non potevo stare nel reparto di infettivologia, perché avrei occupato un letto che poteva essere dato a qualcun altro. Non potevano fare nulla per me perché per curare il rigetto serve di abbassare completamente il sistema immunitario, e farlo col covid in atto può essere pericoloso perché l’infezione può prendere il sopravvento. Il tempo era fondamentale e io stavo perdendo il mio, insieme ai miei respiri.»

«Furono i giorni più lunghi della mia vita. I tamponi rapidi continuavano inesorabilmente a segnare negativo, quelli molecolari a segnare positivo, forse poteva essere una reinfezione del vecchio covid, forse era uno nuovo, forse erano solo dei pezzi di Dna morti del virus rimasti nel naso, forse invece il virus era vivo e vegeto e banchettava nei miei bronchi indisturbato.
«Nessuno sapeva dirmi cosa stava accadendo e io mi sentivo perdere speranza via via che vedevo i numeri del saturimetro scendere inesorabilmente giorno dopo giorno. Ormai facevo fatica a trascinarmi dal letto al divano e viceversa, aspettavo una negativizzazione sperando che i danni rimanessero contenuti entro quello che loro chiamavano rigetto acuto. Finché era acuto era curabile e reversibile.
«Ero esasperata. E terrorizzata. Il tempo passava e chiesi di cominciare le cure, anche fosse stato a mio rischio a pericolo. Mi ricoverarono una seconda volta in infettivologia e finalmente iniziai. Ormai erano passate due settimane da quel famoso primo fiatone che aveva scatenato tutto, e io sapevo che erano troppe.»
 
«Rindossai dopo anni le cannule dell’ossigeno, e mi sentii morire un po’ dentro. Pochi giorni dopo arrivò anche la negativizzazione e venni trasferita in pneumologia. Dopo una settimana feci le prove di funzionalità per vedere come stava andando; ero davvero convinta che fossero buone.
«Poco dopo venne a parlarmi la dottoressa: delle specie di pugnalate. Non ero per niente migliorata, anzi. Arrivavo a malapena a 30% di capacità polmonare. Non avevo risposto alle cure di cortisone, questo voleva dire una cosa sola. Il rigetto non era più acuto. Era cronico.
«Cosa si poteva fare? Molto poco. C’è una terapia, che si chiama fotoferesi. Per il resto: allenamento, per cercare di mantenere il polmone, o per lo meno quello che ne rimaneva, in attività e tanta speranza che non peggiorasse ulteriormente. Possibilità di recupero: non pervenute.
«Così in 15 giorni sono passata da una vita normale che mi ero guadagnata con le unghie e coi denti facendomi aprire a metà e ricucire, ad una vita al 33%, dopo neanche due anni dal trapianto.»

«Rimanevo comunque convinta che con la forza di volontà e l’impegno, le cure, l’allenamento e tutto quello che sarebbe servito avrei recuperato almeno quello che bastava per vivere una vita forse più tranquilla, ma senza troppe rinunce.
|Mi misi subito al lavoro: tutto costava una fatica neanche paragonabile a quella di prima, tutto era in salita, sempre, tutto si traduceva in mancanza di fiato perenne, ma io non mollavo. Iniziai la fotoferesi, con slancio andai a farmi massacrare le braccia di buchi e curai con zelo tutti i miei lividi. Con tenacia iniziai il riallenamento allo sforzo.
«Vivevo in trincea, giocandomi la mia giornata emergenza dopo emergenza, ma sicura che fosse questione di qualche tempo e poi sarei tornata a stare meglio. Cosa che in effetti stava succedendo. Forse il mio corpo stava imparando a compensare dove mancava, si stava abituando a questo suo nuovo status di 33%, o forse obiettivamente qualcosa stava migliorando…»
 
«Ma ecco a giugno il tampone tornare positivo. Stavolta polmonite batterica sopra infezione da covid. Sembrava una barzelletta che non faceva ridere nessuno. Passai una settimana attaccata al ventilatore polmonare 24 ore al giorno, sotto antibiotico, sperando in qualche santo di riuscire a venirne fuori. In quel frangente ho pensato che forse i miei polmoni avrebbero deciso di dare forfait. Eppure hanno resistito. Forse perché sono testardi come me, e allora vuol dire che ci siamo proprio trovati.
«Tremante di ansia, appena mi sentii meglio ripetei le prove di funzionalità aspettandomi uno sfacelo. E invece rimasi estasiata nel vedere che quel meraviglioso 33% era sempre lì. Testardo. Fedele. Non sapevo come dire grazie ai miei polmoni di aver resistito a quello tsunami.
«Era un successo enorme e iniziavo tiepidamente a festeggiare tra me e me, pensando che forse l’avevo scampata, quando ecco che a luglio torno senza fiato, da ferma, anche da sdraiata. Non c’era posizione in cui i miei polmoni accettassero di lavorare. Terrore. Visita. Tampone. Di nuovo positivo.»

«Siamo arrivati ad oggi: ora sto un poco meglio, sono a casa che sto facendo la mia ennesima quarantena. Adesso riesco a stare senza ventilatore polmonare almeno qualche ora al giorno, ma non è finita, ne sono consapevole. E non so quando, né se finirà mai.
«Mi spiegano che negli immunodepressi il covid è difficile da smaltire, che resta latente e poi si rimanifesta. Come portarsi dentro una bomba ad orologeria pronta ad esplodere in qualsiasi momento e che ogni volta si porta via un pezzetto di me, di fiato che io passo mesi a ricostruire.
«Nessuno si salva da solo scriveva la Mazzantini e, con buona pace di chi come me vorrebbe fare tutto da sé, in questo caso è vero: volente o nolente, la mia vita è collegata a doppia mandata alla tua. La mia salvezza passa in modo reale e concreto attraverso la tua sensibilità e intelligenza di proteggere te stesso e al contempo me.»

«Da semplici azioni come usare la mascherina quando serve, rispettare le condizioni minime di sicurezza sanitaria che ci hanno tanto insegnato in questi anni, rinunciare a quell’aperitivo o a quella commissione se sei positivo, rispettare le quarantene.
«In definitiva, non mettermi in condizione di non potermi neanche difendere da qualcosa che mi sta uccidendo già così. Ci sono persone che ancora combattono quotidianamente, alle quali un’attenzione mancata può costare la vita.
«Che loro malgrado fanno di tutto per cercare di rimanere in piedi. La perdita di anche una sola di queste persone per negligenza della società è un fallimento della intera società stessa. Il ripristino della salute pubblica è attualmente una responsabilità per forza di cose condivisa e dovere morale di ognuno di noi.
«È una presa di coscienza su questo tema che chiedo ora; ricordare che la pandemia non è una narrazione finita, ma ci sono parecchie storie tutt’ora inconcluse che forse vale ancora la pena narrare.»

Martina Samaja

Questa testimonianza è dedicata a tutte le persone che oggi a causa del covid, non sono più con noi, a quelle che ancora lottano per guarire, alle nostre fragilità ed al nostro coraggio, per fare memoria e per non abbassare la guardia, in rispetto di chi è meno fortunato e non può difendersi…

Nadia Clementi 

Articolo tratto da: ladigetto.it

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